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Cronaca Viale del Piave

Campetto di viale Piave: la convivenza è un gioco da ragazzi

Viale Piave è una delle zone più multietniche della città, abbandonata dagli italiani e ora abitata per lo più da stranieri. Al campo da basket si ritrovano gli adulti di domani, per loro la convivenza è un gioco

Per Gabriele D'annunzio il Piave era il simbolo “della cacciata dello straniero”, della resistenza al nemico. A Brescia la via che prende il nome del corso d'acqua, sul quale sono stati scritti fiumi di parole, è una delle zone più multietniche della città (il 70% dei residenti sono stranieri). Lo si intuisce dal primo sguardo distratto. Dai nomi delle insegne dei negozi e dei bar, dall'abbigliamento e dai tratti somatici di chi passeggia sui marciapiedi. Una fusione di colori, stili, culture e religioni.

E anche sul Piave bresciano sono state scritte molte pagine. Ben poco poetiche. Nella cronache locali viale Piave ci finisce spesso. Per le vicende legate alla prostituzione e al degrado. Ma il volto diurno dell'arteria cittadina, parallela al cosiddetto salotto buono della città, Viale Venezia, è molto diverso da quello notturno. Se  lo si guarda con  gli occhi di un bambino, poi, i problemi di convivenza sembrano proprio non esistere. Basta posare lo sguardo e l'attenzione sul campo da basket di fronte alla piscina. Un rettangolo di cemento sul quale si riuniscono quotidianamente decine di bambini di tutte le età, provenienze, religioni, colori.

Campetto di Viale Piave © Bresciatoday.it

Un dopo scuola spontaneo e autogestito dai ragazzi. Giocano a basket, a palla bollata e, naturalmente, a calcio. Qualcuno anche a  rugby, ma non su quel cemento. I più grandi coinvolgono e aiutano i più piccoli. C'è chi insegna come passare un pallone, chi solleva un amico più basso per fargli fare canestro, chi consola qualcuno che è caduto. Palloni e monopattini si condividono senza problemi, come i racconti sulle proprie origini. Ma della nazione d'origine sanno ben poco.Molti non l'hanno mai vista. 

Arashdeep ha 10 anni e viene dall'India. Un paese del quale non si ricorda nulla, nemmeno della regione dov'è nato. La sua casa è Brescia e il suo mondo gli amici del campetto: Catalin, Arvi, Michael, Camilla, Henry, Aelornd, Tommaso, Sunny, Alvin e Amlit.  “Veci, venite che facciamo le squadre”. Così Arashdeep si rivolge e raduna la variopinta combriccola, usando uno slang tipicamente bresciano. Si alza una coro: “Dai Violetta vieni anche tu”. Violetta è il nomignolo che hanno affibbiato a Justice, undicenne ghanese, che protesta: “smettetela di chiamarmi così, oggi non ho i calzini viola”.  

Aelornd è filippino e indossa con orgoglio un paio di guanti da portiere, color arancio fosforescente, che si sfila volentieri per prestarli all'amico. Alla palla bollata preferisce un altro gioco: “ Veci, dopo però giochiamo a calcio”, sbotta mentre è impegnato a fare bim... bum... bam! con Catlin per decidere chi comincerà a scegliere i compagni di squadra. Non servono arbitri e non è necessario l'intervento dei genitori. Altri bambini arrivano e s'inseriscono nella partita già cominciata. 

Mamme e papà osservano da lontano, con discrezione, senza mai intervenire. Siedono sulle panchine o sull'erba. Mentre sul campo tiene banco la partita, in “tribuna” fervono i preparativi per la festa della mamma. Le madri si radunano, scambiandosi le torte preparate in casa, fanno il punto della situazione sui compiti e si scambiano pareri e opinioni. Ma tra gli adulti fare gruppo è più complesso. La barriere invisibili da oltrepassare sono molte. Il primo ostacolo è  quello linguistico.  Pic nic sull'erba per le mamme asiatiche, animata conversazione sulle panchine per quelle dell' Est Europa,  organizzazione della festa della scuola tra quelle italiane. A fare, molto spesso, da interpreti e messaggeri, oltre che da collante, sono gli adulti di domani.

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