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Economia

Cos'è questa storia delle pensioni più basse per chi vive di più

Si tratta di una proposta dell'Inps, in base all'impiego e al luogo di lavoro. Lo studio potrebbe arrivare sul tavolo del governo per la riforma della previdenza

L'obiettivo è chiaro: perequare l'assegno di pensione delle categorie di lavoratori che oggi hanno una speranza di vita diversa a seconda di impiego e luogo di lavoro. In altre parole: distribuire gli assegni pensionistici in base a un criterio di equità, "adattandoli" alla speranza di vita dei lavoratori. Prevedendo, quindi, pensioni più basse per chi vive più a lungo, per quei lavoratori che, per impiego svolto e regione di residenza, hanno un'aspettativa di vita più alta rispetto ad altri meno fortunati. Lo studio dell'Inps, sintetizzato nei giorni scorsi dal Messaggero, potrebbe arrivare anche sul tavolo del governo Meloni nell'ambito della riforma previdenziale a cui si sta lavorando da mesi. Ma andiamo con ordine, cercando di fare chiarezza.

Secondo l'indagine-proposta dell'istituto nazionale di previdenza sociale, ciò contribuirebbe a correggere una sorta di ingiustizia del sistema previdenziale: in sostanza, pagare le pensioni senza tenere conto che i meno abbienti hanno una speranza di vita più breve è meno equo e avvantaggia i più ricchi. Per capirlo, basta dare un'occhiata alla speranza di vita degli italiani divisa per regioni o per categorie professionali: ci sono persone che, raggiunta l'età pensionabile dei 67 anni, hanno davanti a loro ancora decenni di vita, altre che invece di quella pensione godranno poche decine di mensilità.

La speranza di vita una volta compiuti i 67 anni, per regione
La speranza di vita una volta compiuti i 67 anni, per regione

Gli assegni di pensione mensili non tengono minimamente conto dell'aspettativa di vita: il coefficiente di trasformazione (il valore che concorre al calcolo della pensione con il metodo contributivo) è infatti uguale per tutti. Lasciando da parte il destino di ciascuno, è vero però che la professione svolta, l'efficienza sanitaria della regione in cui si vive, oltre che le predisposizioni genetiche del singolo, non sono per nulla uguali per tutti. E proprio dove il calcolo delle probabilità appoggia su dati ben noti si potrebbe intervenire, ragiona l'Inps.

L'istituto di previdenza, poi, spiega che la riduzione della speranza di vita dopo l'aumento della mortalità dovuta al covid ha fatto sì che la rendita di chi uscirà dal mondo del lavoro nel 2023 possa aumentare. Con un decreto interministeriale del dicembre 2021, l'Inps ha ricordato che è stata effettuata la rideterminazione biennale dei coefficienti del montante contributivo da utilizzare per il calcolo della quota contributiva per il biennio 2023-2024. A 67 anni il coefficiente è 5,723, a fronte del 5,575 del biennio 2021-2022, più alto anche del triennio 2016-18 (5,700). Come detto, i coefficienti di trasformazione sono valori che concorrono al calcolo della pensione e variano in base all'età anagrafica del lavoratore nel momento in cui consegue la prestazione previdenziale, a partire dall'età di 57 anni fino ai 71 anni. È chiaro che maggiore è l'età del lavoratore, più elevati risulteranno anche i coefficienti di trasformazione. Nel 2023 il coefficiente è pari a 4,270 per chi esce a 57 anni (era 4,186 nel 2021-2022) e a 6,655 per chi esce a 71 anni (era a 6,466 nel biennio 2021-2022).

Cosa vuole fare il governo con le tredicesime dei pensionati

Non solo, perché andrebbero considerate le differenze tra le professioni svolte e le classi di reddito. Entrambe incidono sulla speranza di vita. Dalla banca dati dell'Inps, secondo quanto riportato dal Corriere della sera, emerge che un pensionato iscritto al fondo dei lavoratori dipendenti, operaio o impiegato, ha un'aspettativa media di ricevere l'assegno pensionistico per 17,6 anni. Un pensionato ex dirigente iscritto alla gestione Inpdai, invece, riceverà in media la pensione per 19,7 anni. Nel caso del reddito,  le differenze sono ancora più marcate. Secondo i dati a disposizione, un pensionato che si trova nella parte più bassa delle fasce di reddito riceverà in media la pensione per 16 anni, mentre un ex pilota che si trova nella fascia di reddito più alta,la riceverà in media per 20,9 anni. Il primo ha un'aspettativa di vita media inferiore di quasi 5 anni.

E c'è un altro elemento che incide sulla speranza di vita, e quindi sulle mensilità di pensione che una persona riceverà più o meno: la regione di residenza. L'Inps fa qualche esempio. Gli uomini che vivono nelle Marche e in Umbria hanno una speranza di vita di altri 18,3 anni dopo la pensione raggiunta a 67 anni, mentre le donne più longeve sono in Trentino-Alto Adige , con una speranza di vita media dopo il pensionamento di 21,6 anni. Per gli uomini e le donne che vivono in Campania e in Sicilia, invece, la speranza di vita dopo la pensione scende rispettivamente a 17 e 17,1 anni. Questi dati si modificano regione per regione anche in base al reddito del pensionato. Gli uomini appartenenti alla fascia alta di reddito che vivono nelle Marche e in Umbria hanno una speranza di vita dopo la pensione di 19,4 anni. Stessa cosa dicasi per le donne del Trentino-Alto Adige: quelle con reddito alto si vedono allungare la speranza di vita dopo la pensione fino a 22,5 anni. Una donna siciliana con un reddito basso, invece, riceve in media la pensione per 18,8 anni.

I dati, dunque, dimostrano che l'aumentare della speranza di vita peggiora l'impatto sugli assegni di pensione. Ecco perché i sindacati chiedono di bloccare l'adeguamento dei coefficienti (aggiornati ogni due anni) alla speranza di vita. Provare a differenziare gli assegni in base alla residenza, all'impiego svolto o anche al sesso - le donne vivono in media più degli uomini - non è affatto facile. Ma alcune correzioni, come suggerisce l'Inps, potrebbero rendere meno iniquo il sistema in vigore.

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