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Economia

Stipendi fermi al 1991: i numeri (shock) sulle buste paga degli italiani

Un rapporto dell'Inapp certifica che negli ultimi 30 anni le retribuzioni sono rimaste al palo. La produttività è un fattore che incide, ma non l'unico: va ripensata anche la contrattazione

Gli stipendi degli italiani sono fermi al palo. Tra il 1991 e il 2022 i salari reali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell'1%, a differenza dei Paesi dell'area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%. A dirlo è l'ultimo rapporto dell'Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche) presentato oggi alla Camera dei deputati.

Ci sono "forti dubbi - si legge nel rapporto - sulla tenuta di tale modello nel lungo periodo". L'ente di ricerca spiega che nel periodo compreso tra il 1991 e il 2022 l'Italia "ha conosciuto una crescita dei salari nominali del 107,5%", tuttavia "in termini reali i livelli salariali sono rimasti pressoché invariati". Tradotto ciò vuol dire che la quantità di beni che un lavoratore può acquistare col suo stipendio è la stessa di 30 anni fa.

L'andamento dei salari in Italia

Il risultato è che nella classifica Ocse l'Italia è sprofondata dal nono posto del 1992 al 22esimo del 2022 (su 35 Paesi). "Si tratta di un trend ormai strutturale - precisano dall'Inapp - che sottende problematiche di diverse natura ma che evidentemente riguardano anche gli istituti del mercato del lavoro che regolamentano le retribuzioni". 

Dati salari medi

Il problema della produttività

Uno dei problemi, ma certamente non l'unico, è quello della scarsa produttività: a partire dalla seconda metà degli anni novanta, si può leggere nel rapporto, la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%. Va detto però che la produttività ha fatto registrare comunque una crescita superiore a quella dei salari.

La produttività oraria del lavoro in Italia e nei Paesi Ocse
La produttività oraria del lavoro in Italia e nei Paesi Ocse

La contrattazione collettiva non funziona

Il problema dei salari è però secondo l'Inapp connesso anche con "le difficoltà che vive oggi il sistema italiano di relazioni industriali nel suo complesso". L'Inapp cita in particolare "la proliferazione e la frammentazione delle organizzazioni collettive" e spiega che "diventa sempre più urgente" riprendere "la via delle politiche legislative di sostegno al sistema delle relazioni collettive, rafforzando in primo luogo le organizzazioni collettive sia dei lavoratori, ma anche quelle dei datori di lavoro". In altre parole oggi la contrattazione collettiva non funziona e non tutela adeguatamente i lavoratori.

Oggi il sistema italiano prevede due livelli negoziali per fissare i salari. "Mentre al primo livello", ovvero ai contratti collettivi nazionali, "spetta di stabilire i minimi retributivi, nel secondo (aziendale o territoriale) viene contrattato il salario di risultato legato a incrementi di produttività, di qualità e di altri elementi di competitività". I governi hanno finora cercato soprattutto di stimolare la contrattazione di secondo livello, ad esempio incentivando il ricorso ai premi di risultato o di produttività facendo leva sulle agevolazioni fiscali. Ma qualcosa non ha funzionato.

In Italia la contrattazione aziendale è merce rara

Ad oggi, secondo i dati raccolti con le dichiarazioni dei redditi, i premi di risultato interessano solo il 9% dei dipendenti, con ampie differenze territoriali. In sintesi se nelle regioni del Nord si va spesso ben oltre il 10%, in quelle meridionali il ricorso al salario accessorio è davvero marginale (4% in Calabria, 5% in Sicilia e Sardegna, 6% in Campania e Puglia).

C'è poi un altro problema: la contrattazione di secondo livello è abbastanza diffusa nelle grandi aziende, molto meno in quelle più piccole che pure costituiscono una parte importante del tessuto produttivo italiano. "Da queste evidenze empiriche - spiega l'Inapp -, emerge che quell'aspettativa affidata al secondo livello di contrattazione di far crescere i salari e la produttività del lavoro tramite l’istituzione dei premi di risultato" viene "di fatto vanificata dalla scarsa diffusione della contrattazione aziendale" che quando c'è "si presenta fortemente squilibrata con polarizzazioni per dimensione di impresa, per settore, per territorio e per classe di reddito".

Il salario minimo

Il risultato è che i lavoratori hanno lo stesso salario di 30 anni fa. Non solo. Il presidente dell'Inapp, Sebastiano Fadda, spiega che "l'andamento dei salari reali nel nostro Paese" si rivela "nei tempi recenti addirittura in diminuzione rispetto al 2020, a fronte di incrementi sostanziali negli altri Paesi". In questo caso a incidere è stata anche la fiammata dell'inflazione. Un altro tema sul tavolo è poi la tutela di quei lavoratori che oggi non sono quasi o per nulla garantiti dai contratti collettivi. Il salario minimo potrebbe essere un passo in avanti. "Non esistono ragioni - dice Fadda - né sul piano analitico né sul piano dell'evidenza empirica per escludere strumenti basati sull'imposizione di una soglia minima invalicabile".

Fonte: Today.it

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