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In memoria di Giorgio Galli, il professore che voleva cambiare il mondo

E' morto a 92 anni il prof. Giorgio Galli, già docente alla Statale di Milano nonché prolifico autore: il ricordo dei suoi interventi bresciani

Il fiume dei ricordi scorre veloce in questi giorni: la memoria torna alla fine di quel giugno, quasi dieci anni fa (era il 2011). E' stata una delle mie prime interviste bresciane, una delle prime “esclusive” agli albori di BresciaToday, che di fatto aveva appena aperto i battenti. Ci siamo incontrati in una stanzetta, ai margini del salone Bruno Buozzi della Camera del Lavoro di Brescia: è qui che, seduti l'uno di fronte all'altro, abbiamo parlato a lungo. Anzi: io domandavo e lui rispondeva. Tutto registrato sul primo iPhone della mia carriera, e poi sbobinato, e poi pubblicato.

Era piccolo di statura, ma un gigante della storia intesa anche come “scienza”: parliamo di Giorgio Galli, spirato domenica 27 dicembre a Camogli, provincia di Genova. Aveva 92 anni: classe 1928 e nato e cresciuto a Milano, Galli si era laureato in Giurisprudenza alla Statale di Milano, la stessa università dove per anni ha poi insegnato Scienza delle dottrine politiche. Nella sua lunghissima carriera è stato un professore apprezzato e un autore prolifico.

Ricordi eccellenti per il prof. Galli

Viene ricordato così dal rettore Elio Franzini: “Uno dei più acuti interpreti del pensiero politico contemporaneo, sempre fuori dal coro e attento alle vicende concrete del mondo politico così come ai fenomeni misteriosi che hanno attraversato la storia dell'umanità”. Questo invece il commento dell'assessore regionale alla Cultura Stefano Bruno Galli: “Era uno storico delle dottrine politiche anomalo e diverso dagli altri, in quanto la sua vocazione, i suoi studi e le sue ricerche erano più orientate verso la scienza politica. Ha sempre raccolto un grande successo, e anche per questo è stato sempre mal digerito dai paludati ambienti accademici”.

Interviste e conferenze bresciane

Tornando a quel giorno, alla fine di giugno, Galli era a Brescia – ospite della Cgil e del Centro Filippo Buonarroti. All'occhio saltava, inevitabile, la sua infinita preparazione: tutti avevano appunti, o almeno un canovaccio. Lui parlava a ruota libera, a braccio, nonostante l'incedere dell'età (già all'epoca erano 83, mica pochi). In città ci tornerà ancora, almeno altre due volte: per parlare della Prima Guerra Mondiale e dell'anniversario della Guerra in Libia. Ma vogliamo ricordarlo per quello che disse quel giorno, in quel giugno, quando venne a Brescia per raccontare della riedizione del suo libro, “Storia del Partito comunista italiano”, ripubblicato da Pantarei. Per farlo ripubblichiamo la sua intervista integrale: oggi come ieri, sempre attualissima.

L'intervista a Giorgio Galli

Nel suo libro si parla spesso di stalinismo. Giusto per stare in tema, quale fu la reazione del PCI alla pubblicazione della sua opera? Togliatti come la prese?

La prima edizione era stata nel ’53, e Togliatti ne scrisse su Rinascita, dicendo che noi avevamo scoperto un iguanodonte, Amedeo Bordiga. La sua critica non fu molto violenta, disse solo che era stravagante e piena di inesattezze piccole e grande. La reazione del Partito Comunista fu quella di considerarla una provocazione nei confronti della storia vera del partito, quella raccontata ufficialmente.

A proposito invece dell’Unione Sovietica, in molti la considerano come la più grande menzogna del secolo scorso, tanto da aver prodotto dei danni irreparabili all’interno del movimento operaio e rivoluzionario.

L’Urss non fu solo repressione, è stato anche un esperimento. La menzogna stava nel presentare come una rivoluzione socialista la trasformazione della Russia in una società capitalista moderna. Però aveva una forte attrazione, era un mito che aveva convinto tutto buona parte dell’Occidente, operai e intellettuali. Bisogna anche ricordare che negli anni ’50 l’Urss aveva appena sconfitto, per la prima volta, il nazismo sui campi di battaglia: le armate naziste erano state sconfitte prima a Mosca e poi definitivamente a Stalingrado. Da qui la confusione degli osservatori, e se in realtà in Urss era stata costruita una potenza moderna in grado di sconfiggere il nazismo (seppur a un prezzo altissimo) tale vittoria veniva considerata una vittoria della rivoluzione socialista, della società comunista. Fece grande presa la versione che il nazismo fosse stato sconfitto dal socialismo realizzato, e non dal capitalismo di Stato. Questa interpretazione non fu accettata solo dalle masse popolari, ma anche da molti intellettuali, e questo è uno degli aspetti più tragici. Intellettuali che avevano strumenti di pensiero di informazione in grado di capire cosa stava realmente accadendo preferirono invece accettare a occhi chiusi il mito sovietico. Due tipi diversi di intellettuali: alcuni che costruirono i partiti comunisti occidentali, altri che erano invece compagni di strada con una apparente autonomia critica che però non esercitarono mai. Basta pensare a Sartre e, con modalità diverse, a Lukacs. Molti di loro negarono che la costruzione di questo capitalismo di Stato fosse avvenuta anche attraverso i campi di concentramento. Certo, Stalin non fu solo gulag, ottenne anche un certo grado di consenso. La maggioranza degli intellettuali di sinistra d’Occidente però, piuttosto che accettare un’analisi critica del fenomeno sovietico, ne accettarono la versione mitica.

In particolare ho notato un passo del suo libro (pag. 248) in cui Togliatti in un certo senso si smaschera, quando su Rinascita nel 1944 scrive “partito nuovo è un partito della classe operaia e del popolo […] che interviene nella vita del Paese con un’attività positiva e costruttiva”. Questa è una contraddizione mastodontica.

Lui disse allora che in Italia non c’erano le condizioni per una rivoluzione socialista, e quindi che bisognava accompagnare quella che lui definiva ‘democrazia progressiva’, attraverso uno sviluppo costruttivo. Togliatti era un intellettuale fortemente militante, lui apparteneva al primo tipo di intellettuali che ho citato, quelli che hanno costruito i partiti comunisti occidentali.

Domanda di attualità. Critici, economisti e media sembrano sostenere erroneamente (anche a livello mondiale) che la classe operaia starebbe per scomparire. Ma allora i moti del Nord Africa, o in Italia gli scioperi nei cantieri Finmeccanica?

La classe operaia non è scomparsa. Ci sono ribellioni operaie che vanno dalla Cina alla resistenza della Fiom contro il progetto Marchionne. Il problema vero non è che non esista la classe operaia o che non ci siano lotte operaie, ma trasformare tutto questo in un progetto è un passaggio davvero molto difficile. La classe operaia non è scomparsa, le sue lotte (con varie modalità dalla Cina a Torino) si manifestano ancora, però non fanno più parte del grande progetto alternativo della rivoluzione socialista mondiale, non ci sono più soggetti che l’avevano interpretata. Questo è uno dei grandi problemi del XXI secolo: la classe operaia c’è, le lotte operaie ci sono, manca il soggetto politico in grado di trasformarle in un progetto per il futuro.

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