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Cronaca

Sulzano, alloggia all’hotel dei profughi: “Sono un rifugiato anch’io”

Salvatore Brosco, 47enne napoletano da 16 anni a Brescia, è disoccupato da tre anni. E per protesta si è rifugiato all'hotel Alpino di Sulzano, lo stesso dove alloggiano una ventina di profughi. "Sono un rifugiato bresciano", è la sua tesi. E pretende per sé - e per tutti coloro che versano nelle sue condizioni - le stesse garanzie di chi fugge da guerra e povertà.

BRESCIA – Un lavoro che manca da troppo tempo. E, con esso, i soldi per mantenere se stesso, la moglie e i cinque figli. Salvatore Brosco – 47enne di origine napoletana, ma da più di 15 anni a Brescia – non ce la fa più. E non ci sta.

La sua forma di protesta e ribellione è approdato prima all'hotel Milano in città, pieno, per spostarsi allora all’hotel Alpino di Sulzano. Qui sono alloggiati circa venti profughi; 16,per l’esattezza. E, da qualche settimana, anche Salvatore Brosco. Si è presentato alla reception dell’hotel come un normale cliente, con una scusa: “Starò qui una settimana per lavoro”. E ha versato una caparra. Gli ultimi spiccioli rimasti nelle sue tasche. Per il saldo non rimane nulla.

Il suo gesto non sottintende alcun astio verso i profughi. Salvatore ce l’ha con uno Stato che non garantisce tutti i poveri allo stesso modo. E se ci sono i fondi per chi fugge dalla guerra e dal disagio per arrivare in Italia, allora devono esserci anche per lui. Non chiede niente di più, né di diverso, rispetto a quanto garantito ai suoi nuovi compagni di vita.

Viveva alla Badia, Salvatore, ma da tempo non riusciva a sostenere l’affitto. Prima gli era andata male con il commercio d’antiquariato, e poi anche con il lavoro di autotrasportatore. Di fatto, Brosco è disoccupato da tre anni.

Il titolare dell’hotel è al corrente della situazione di Salvatore. E sa che Brosco non ha alcuna intenzione di andarsene, almeno finché non avrà risposte e aiuti dalle istituzioni. Ma sulla sua testa pende la minaccia di un foglio di via.

Brosco non è nuovo a gesti destinati a suscitare scalpore. In piazza San Pietro a Roma aveva minacciato di darsi fuoco, aveva ingoiato una scheda elettorale e si era presentato in Tribunale indossando una tuta arancione, a guisa di un prigioniero: non di Guantanamo, ma dello Stato italiano.

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