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Cronaca Castiglione delle Stiviere

Un viaggio di speranza nell’OPG di Castiglione: «Passi bianchi e silenziosi»

Francesca Gardenato e Anita Ledinski e il racconto di una storia quotidiana che da anni si consuma oltre i cancelli dell'istituto psichiatrico in località Ghisiola: "La storia di persone che la società non può accogliere"

Castiglione delle Stiviere, località Ghisiola: una circonferenza di verde, piante giovani e piante antiche, là in mezzo l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, proprio quello dei matti, dei non sani di mente, e al suo interno un’esperienza unica in Italia, il reparto femminile dell’Arcobaleno “dove 80 donne, autrici di crimini atroci come figlicidio o neonaticidio, ricevono intensa terapia psicosociale, malate di diverse forme psicotiche alla base dei loro inumani delitti”. Un’esperienza fatta di “tanti e agghiaccianti racconti, esperienze drammatiche e soprattutto definitive”, nell’anima indelebili ma che meritano un percorso di riabilitazione, la speranza di poter ricominciare.

“L’OPG è senza dubbio una realtà molto diversa – racconta la giornalista Francesca Gardenato – da come si immagina un luogo di reclusione: senza sbarre alle finestre né guardie carcerarie né filo spinato. Oltrepassata l’esteriorità, dentro, il senso di privazione della libertà s’avverte nei volti spenti, nell’indolenza dei movimenti, negli spazi ristretti di una condivisione forzata, di una quotidianità mesta, in cui si cura la malattia mentale. Che ai giorni nostri, purtroppo, può essere ancora una piaga sociale”. Attese interminabili e il reiterato “male di vivere”, e tutti qui camici chiari ai quali i pazienti “si aggrappano per trovare conforto”, ecco i “passi bianchi e silenziosi”.

Il titolo di un libro (edizioni Sometti, 230 pagine) che vuole essere anche una sorta di ultimo atto prima della chiusura o della riconversione degli ex manicomi criminali in micro-comunità, scritto a quattro mani da Francesca Gardenato e Anita Ledinski, la protagonista del racconto, il filo conduttore tra i personaggi di una storia quotidiana ma che da anni si consuma oltre i cancelli dell’istituto. Un testo che “per la prima volta mette al centro gli operatori sociosanitari, e non i medici”, perché “chi lavora lì sa che deve fare del proprio meglio per aiutare le donne ingiustamente stigmatizzate dalla società e dai media perché malate di mente”. In fondo è stata proprio la malattia “che le ha spinte a compiere certi crimini”.

Anita all’OPG ci lavora ancora, e al desiderio di “fotografare la realtà, ciò che vedo e che tocco ogni giorno” si accompagna quello di “abbattere i pregiudizi”, donne malate ma che sono “persone e non mostri”, donne che vivono una vita che “fuori di qui, non avrebbe alcun valore”. Con un po’ di amarezza, ammette Anita Ledinski, “lo scrivo a malincuore ma lo sento: la società non è ancora pronta ad accoglierle”. Eppure da lontano il barlume non si spegne, spiegano le autrici, “ci sono tanti accanimenti contro l’OPG e non tutti fondati” ma allo stesso tempo “c’è molto altro da sapere”.

“Questo ambiente – concludono – è animato da persone che fanno assistenza e non sorveglianza, sono infermieri e operatori che sono in prima linea e rischiano sulla propria pelle per svolgere al meglio il loro lavoro, ogni giorno. Quella pietas che induce ogni uomo, e ogni donna, ad amare e rispettare il prossimo, sia esso sano o malato”. Forse allora ha ragione chi sostiene che l’essere umano non ha nulla di innato, e tanto meno l’egoismo: di sbagliato c’è solo la società, e le sue gigantesche contraddizioni.

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