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Martedì, 3 Ottobre 2023
Cronaca Borno

Donna uccisa e fatta a pezzi: smentita l'ipotesi della ginecologa scomparsa

Non è ancora stata identificata la donna uccisa e fatta a pezzi

E' stato chiaro fin da subito: le indagini sono “partite da zero”. E' quanto riferito dagli investigatori a poche ore dal ritrovamento del corpo fatto a pezzi di una donna, domenica pomeriggio a Paline di Borno. Abbandonato sul ciglio della strada, tagliato in 15 parti (tra cui la testa e le mani) e sistemato in quattro sacchi neri: sul cadavere martoriato anche segni evidenti di bruciature sul volto, le sarebbero stati strappati anche i tatuaggi. Non si conosce ancora la sua identità, nonostante l'autopsia, i prelievi del Dna e le impronte digitali: ad oggi è noto che potrebbe avere tra i 30 e i 50 anni, alta circa un metro e sessanta e di corporatura minuta.

Indagini in corso, a cura dei carabinieri e coordinate dalla Procura di Brescia – nella figura della pm Lorena Ghibaudo, titolare del fascicolo aperto per omicidio, distruzione e occultamento di cadavere. Tutto è possibile, con gli elementi raccolti finora. Esclusa l'ipotesi che si trattasse di Suad Alloumi, la ragazza (e giovane mamma) probabilmente uccisa dal marito ma di cui non è mai stato ritrovato il corpo. Potrebbe essere allora una donna vittima della tratta di esseri umani, costretta a vendersi sulle strade e poi finita nelle grinfie della criminalità organizzata.

La scomparsa di Sara Pedri

E ancora, un'altra ipotesi inevitabilmente emersa in queste ore ma poi smentita dai fatti: il riferimento è alla ginecologa Sara Pedri, scomparsa a 31 anni ai primi di marzo del 2021. Anche lei alta circa un metro e sessanta, di corporatura esile: erano questi gli unici elementi che avrebbero fatto pensare a una concidenza, come detto smentita dalle evidenze raccolte in sede d'indagine (tra cui i diversi tatuaggi che è stato ancora possibile individuare). Per la cronaca, Sara Pedri era originaria di Forlì, abitava a Cles (in Trentino, a meno di due ore di macchina da Borno) e lavorava all'ospedale Santa Chiara di Trento.

Come riferito da Chi l'ha visto, che si è ampiamente occupato della vicenda, la sua auto venne rinvenuta “in prossimità del ponte di Mostizzolo, al confine tra i Comuni di Cles e Cis. Le ricerche sono state condotte con l'ausilio di cani molecolari e tracce della donna sono state fiutate lungo l'imbocco della pista ciclabile che dal ponte conduce verso la Val di Sole, fino ad arrivare al precipizio alla cui base scorre il torrente Noce, che confluisce nel lago di Santa Giustina”. 

Un albero della vita in sua memoria

Il 6 marzo scorso, al Parco urbano di Forlì, in sua memoria è stato piantato una sorta di “albero della vita”, si legge in un post condiviso sul profilo Facebook della sorella Emanuela, “un liquidambar le cui foglie, in autunno, diventeranno rosse come i capelli di Sara: di fianco alla pianta è stata posta una targa con la foto della ginecologa, per non dimenticare mai la giovane dottoressa scomparsa a Cles”. “Ringraziamo tutti i presenti – scrive Emanuela Pedri – che con le loro parole di vicinanza e sostegno hanno contribuito a farci sentire meno soli in tutti i questi mesi. Ringraziamo le forze dell'ordine, e in particolare il capitano Guido Quatrale di Cles che non ha mai smesso di cercare Sara. Ringraziamo tutti i suoi colleghi perché, seppure a distanza, con i loro grandi gesti ci hanno fatto sentire l'amore per lei”.

"Sono un morto che cammina"

“Sono un morto che cammina, questa volta non ce la farò”: è invece questo quanto avrebbe detto Sara Pedri – così riporta l'Ansa – come si legge in uno dei passaggi contenuti nelle 119 pagine della consulenza tecnica redatta dalla psicologa Gabriella Marano. Per la psicologa la giovane donna sarebbe stata vittima di mobbing, “ovvero di comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo (anche inconsapevole) di violare la sua dignità di donna e lavoratrice, e di creare intorno a lei un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo, che ha minato il suo equilibrio in pochi mesi, generando in lei un disturbo post traumatico da stress”. Anche per questo si è sempre seguita la pista del gesto estremo, ad oggi ancora la più accreditata.

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