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Cronaca

Una città contaminata: «Vicini al punto di non ritorno, così non c’è futuro»

Un viaggio nell'inquinamento, raccontato dai dati inequivocabili, dai segnali della contaminazione. Oggi parliamo con Marino Ruzzenenti, storico ambientalista bresciano: della Caffaro, dei rifiuti, di PCB e diossine

Un’emergenza ambientale bella e buona, e non solo ascoltando gli ambientalisti, ci sono dati precisi, ci sono esperti e medici. Abbiamo ascoltato il dottor Panizza (qui la sua intervista), ora proseguiamo la nostra piccola inchiesta con le parole di Marino Ruzzenenti, storico ambientalista che dagli anni ’80 si impegna in iniziative in campo ambientale. E su quanto emerso negli anni, non ci sono proprio dubbi: “Brescia è contaminata da diossina e PCB, punto. A una quota così elevata che non c’è confronto nemmeno a livello internazionale. Se parliamo di PCB, il cui limite nel terreno è fissato per 60mg x kg, a Brescia otteniamo un’area molto estesa, terreni agricoli e residenziali, con punte massime di 1000mg. Tutta l’area del sito Caffaro, in cui la popolazione è esposta a contaminanti spaventosi”.

Chiaro che in giorni come questi viene spontaneo pensare al confronto con l’Ilva di Taranto, dove si spenderanno quasi 300 milioni di euro per la bonifica e dove ancora si combatte, tra chiusura e apertura. “Ci sono pochi campioni delle terre di Taranto, ma pare che la diossina non vada molto oltre i 10 ng x kg, limite massimo per terreni urbani e agricoli. A Brescia c’è un’intera zona che supera i 100 ng x kg! Una situazione da dieci a trenta volte peggio, una situazione che dovrebbe sì scatenare l’opinione pubblica ma anche la magistratura”. Il suo prossimo saggio, a cui sta ancora lavorando, si intitolerà infatti (con un pizzico di provocazione) ‘Ma c’è un giudice a Brescia?’.

“Il sangue dei bresciani – continua Ruzzenenti – e non solo in zona Caffaro, ma pure a Nord, e a Est, risulta più contaminato di quello delle nuove generazioni tarantine. Livelli decine di volte superiori, come per quanto riguarda il latte materno, in cui il confronto è impari: dai 20 ai 30 picogrammi x g contro i 140 o 150 delle donne bresciane prese in esame. Non che a Taranto le emissioni attuali siano inferiori a quelle bresciane, anzi. Ma là stanno sul mare, la ventilazione marina permette il cambio continuo dell’aria. A Brescia invece le emissioni ristagnano, senza dimenticare la gravissima eredità storica della Caffaro”.

La situazione è davvero drammatica, “anzi intollerabile, e mi chiedo il perché di un mancato intervento della Magistratura, a fronte di un evidente rischio per la salute”. Da qui la richiesta comune della bonifica dell’area Caffaro, “a cui certo non bastano i 6 milioni promessi dal Governo, e per giunta mai arrivati”, oltre al cambio in corsa del modo di gestire la produzione industriale e lo smaltimento dei rifiuti: “Abbiamo un inceneritore inutile, figlio di una cultura obsoleta. Non è obbligatorio bruciare i rifiuti, si possono recuperare o smaltire in modo diverso, in economia e in ecologia. Senza parlare delle acciaierie, che sfruttano i propri forni (quando va bene) al 60%, garantendo comunque emissioni importanti. Perché non fare un consorzio, perché non concentrare le forze? Abbiamo forni di Provincia che sono sottoutilizzati, a Lonato e a San Zeno, potrebbe essere una soluzione intelligente al calo produttivo e strutturale delle aziende dell’acciaio”.

La crisi da un altro punto di vista, perché “rinunciare ad inquinare non significa rinunciare a produrre”. Ma c’è ancora troppo silenzio, troppa omertà, e “una situazione gravissima in cui però ci viene detto di sdrammatizzare”. Ma come? “ASL e ARPA, e non parliamo degli enti locali, che parlano della necessità di una convivenza, perché Brescia è una realtà industriale, e l’industria inquinante deve essere antropologicamente connaturata alla brescianità e ai bresciani. Come se fosse una medicina, con tanti effetti collaterali con cui bisogna convivere per forza. Ma non è così, non dobbiamo sottovalutare il problema, Brescia è contaminata, da cima a fondo. E sono tutte storie, il nostro organismo non può abituarsi, non può adattarsi alle diossine e al PCB, al cromo e alle PM10”.

Non serve parlare di San Polo o di ChiesaNuova: “A Brescia stanno tutti male, c’è chi sta un po’ peggio e chi un po’ meno peggio. Ma dall’aria all’acqua, bisogna prendere coscienza, la situazione è inaccettabile, e intollerabile. Ci sono già effetti a breve termine, ci saranno effetti peggiori a lungo termine. Lo sappiamo tutti, stiamo parlando di sostanze altamente tossiche, che se si trovano in un determinato ambiente è chiaro che danneggiano la salute di chi ci vive”. E non ci si ferma a Brescia, ci sono i laghi (Garda in testa, con gustose anguille alla diossina), ci sono zone come Montichiari dove si convive con almeno 11 discariche, ed “effetti peggiori anche rispetto a quello che era il triangolo della morte di Caserta”.

Un problema serio e di carattere generale, legato alla “monocultura dei rifiuti”, un settore “assolutamente non necessario e assolutamente da rivedere, e da ridimensionare”. Qualcosa è da cambiare, così non si può e non si deve continuare: questa dovrebbe essere la mentalità diffusa, e invece no: “Il livello di accettazione è ancora troppo alto, e il motivo è chiaro. Troppi interessi economici diffusi, interessi non solo industriali, interessi passati e presenti, attuali e futuri”.

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