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Cronaca Piazzale Canton Mombello

"Anche noi faccimo parte di quella cosa che si chiama vita", i detenuti scrivono a Papa Francesco

Una lettera firmata a nome del 'Popolo carcerario di Canton Mombello' è stata spedita al nuovo pontefice, per chiedere una visita al carcere cittadino: "Realizzi il nostro sogno, ci venga a trovare"

Il carcere di Canton Mombello è gravato da anni da un sovraffollamento indegno per qualsiasi paese civile. Corpi ammassati senza rispetto per la dignità umana (255 detenuti ogni 100 posti letto), mancanza di igiene, letti a castello fino al soffitto e malattie, persino un caso di tubercolosi attiva. Una condizione terrificante nell'indifferenza delle istituzioni, che da anni volgono le spalle forse in attesa di un miracolo: la divina provvidenza, insomma, il "San Gennà facce la Grazia!" che nei secoli ha fatto da contraltare all'immobilismo italiota.

E' forse per questa ragione che i detenuti del carcere cittadino hanno deciso di mandare una lettera a Papa Francesco, chiedendo al pontefice argentino di venire a visitare le loro celle: "Qui prevale la certezza e la paura di essere abbandonati. Ma quest’anno è l’Anno della Fede e la Fede vince ogni paura. Passiamo venti ore al giorno rinchiusi nelle celle, buttati sulle brande e per noi sono ricorrenti i sogni che non sono realtà ma il sogno che sua Santità ci venga a trovare, solo Sua Santità può farlo diventare realtà". "Caro Papa Francesco - scrive ancora il 'popolo carcerario di Canton Mombello' - realizzi il nostro sogno, ci venga a trovare, ci aiuti a dimostrare che anche noi facciamo parte di quella cosa che si chiama vita".

"Se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo", cantava De André. Noi, la cosiddetta società civile, e una politica che da anni ha smesso la sua funzione di guida e di cambiamento, rinchiudendosi su se stessa nella mera gestione dell'esistente, ce ne siamo dimenticati.

Il nastro del tempo si riavvolge, la fede ritorna a essere l'estremo (l'unico?) appello per le istanze dei più deboli. Per ricordarsi di far parte di "quella cosa che si chiama vita", per non far prevalere "la certezza di essere abbandonati", ai 300 carcerati firmatari della lettera oggi non resta che volgere gli occhi al cielo: qui, sulla terra, l'indifferenza degli uomini rende gli sguardi deserti e inospitali.

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