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Giuseppe Bontempi, morto in miniera: un bresciano alla tragedia di Marcinelle

L'anniversario della tragedia di Marcinelle, in Belgio

La valigia di cartone, le scarpe con i buchi, un viaggio che sembra non finire mai, una famiglia a casa che aspetta, e spera: storie di emigrazione, di ieri e di oggi, nel giorno che celebra il triste anniversario della tragedia di Marcinelle. Era la mattina dell'8 agosto 1956, ormai quasi 70 anni fa: nella miniera di carbone Bois du Cazier, in Belgio. Un incendio, causato dalla combustione d'olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica: sviluppatosi inizialmente nel condotto d'aria principale, riempì di fumo tutto l'impianto sotterraneo. Provocando la morte di 262 persone, operai e minatori: di questi ben 136 erano immigrati italiani.

Venivano da tutta Italia, oltreconfine in cerca di fortuna, di un futuro migliore. Soprattutto dal centro e dal sud, dall'Abruzzo (più di tutti) al Molise, dalla Puglia alla Calabria. Ma in quell'inferno di fumo e fuoco c'erano anche dei lombardi, e tra loro anche un bresciano: Giuseppe Bontempi di Bienno, nato il 31 dicembre del 1925, a casa la moglie e un figlio che lo aspettavano. E che non lo rivedranno mai più.

Storie di migranti e di lavoratori

La storia si ripete, anno dopo anno. Un tempo gli immigrati eravamo noi, adesso sono gli altri. In terra come in mare, viaggi senza fine con la paura di non arrivare mai. Di morire. Poi i disastri, le tragedie dei lavoratori: gli incendi nelle fabbriche americane, o nelle miniere. Come a Monongah e Dawson, incidenti ancora più gravi (dal punto di vista numerico) della tragedia di Marcinelle.

Solo pochi anni fa, una delle più grandi (e terribili) che la storia ricorda: era il 24 aprile del 2013 quando a Savar, un sub-distretto della grande area di Dacca, capitale del Bangladesh, crollò per intero una fabbrica tessile di otto piani. Considerato il più grave incidente mortale della storia, per un cedimento strutturale: morirono 1.129 persone, con 2.500 feriti.

Italiani (e bresciani) in cerca di fortuna

Nel suo celebre libro “L'Orda”, Gian Antonio Stella ha fatto i conti dell'emigrazione italiana tra il 1876 e il 1976: tra le regioni a maggiore emigrazione, oltre a Veneto (3,3 milioni di persone), Campania (2,7 milioni) e Sicilia (2,5 milioni) c'è anche la Lombardia, con 2 milioni e 300mila emigrati in totale. Come la città di Milano, e un po' del suo hinterland. E tra loro anche tanti bresciani. 

Li chiamavano “Macaroni”, i mangia-pasta. Oppure “Spaghettifresser” in Germania, mangia-spaghetti: ma con il verbo che si utilizza per gli animali (fressen invece di essen). E ancora “Ithaker”, giramondo senza patria, “Greaseball”, palla di grasso o testa unta, “Bolanderschlugger”, mangia-polenta, “Bat” come pipistrello, diffuso in certe zone degli Stati Uniti e ripreso dal giornale Harper's Weekly per spiegare come molti americani vedessero gli italiani “mezzi bianchi e mezzi negri”.

E ancora le vignette, i titoli dei quotidiani: “La discarica senza legge”, scriveva il Fudge. “Occhio zio Sam, sbarcano i sorci: l'invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d'Europa”. “Nuova patria, vecchi mestieri”, scriveva invece Harper's Weekly, con riferimento agli italiani che mendicavano per le strade.

Quando i clandestini eravamo noi

Quando i clandestini eravamo noi, e nemmeno troppi anni fa. Mezzo secolo, sessant'anni o poco più: nel 1963 ancora si pubblicavano le fotografie – si legge ancora ne “L'Orda” – di lunghe file di italiani che passavano clandestinamente il confine con la Francia. Nel 1958, su Il Giorno, Tommaso Besozzi scriveva che “erano stati almeno 10mila, dalla sola Calabria, a varcare clandestinamente il confine nella seconda metà degli anni Cinquanta, con una lunga marcia sui nevai della Vasubie”.

“Quando gli albanesi eravamo noi – scrive Gian Antonio Stella – ed espatriavamo clandestini a centinaia di migliaia oltre le Alpi e gli oceani, dormivamo a turno in quattro nello stesso fetido letto, eravamo così sporchi che a Basilea ci era interdetta la sala d'aspetto di terza classe. Quando ci accusavano di essere tutti criminali, ci rinfacciavano di avere esportato la mafia e ci ricordavano che quasi la metà dei detenuti stranieri di New York era italiana”. A volte basterebbe guardare appena indietro, alle nostre spalle: la memoria troppo corta non fa bene a nessuno.

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