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Giovanni Pizzocolo

Giornalista Brescia

Il deserto dove c'era l'acqua, il grande fiume ha perso anche il suo Re

"Ci sono persone che hanno soldi, macchine e ville costose, e nonostante tutto sono sempre tristi. Lo sai invece perché io, che non ho niente, sono così felice? Perché io ho il fiume Po"

In un viaggio Brescia-Roma, fatto in Vespa quando ero ancora un ragazzo, a Boretto feci la conoscenza di un uomo speciale; o, meglio, di un uomo-bambino. Si chiama Alberto Manotti, per tutti nientemeno che il "Re del Po". Raccogliendo rami e tronchi portati dalla corrente del fiume, sotto il ponte tra la Lombarda e l'Emilia, Alberto ha costruito quella che lui chiama la sua "Isola di Pan", un'enorme struttura lunga trenta metri e alta sei, una nave immaginaria con torri, scale e passerelle, cresciuta nel tempo come un essere vivente, grazie a venticinque mila pezzi di legno e duecento mila chiodi (quelli storti e arrugginiti li regala, "portano fortuna"). 

Per me, da allora, è nato un amore spirituale per il grande fiume. A pochi luoghi la mia anima appartiene, come a quelle silenti rive, tra il profumo dei tigli e la maestosa umiltà dei loro tronchi, e le calde serate nei pioppeti brulicanti di pappi, turbinanti nell'aria come sogni di neve (le 'manine' dell'Amarcord di Fellini).
Re del Po-2
Ora il grande fiume è malato, e lo è come mai è successo prima: dall'ultima chiusa prima dell'immissione nell'Adriatico, quella di Pontelagoscuro (Fe), defluiscono solamente 300 metri cubi d'acqua al secondo, quando normalmente – in questo periodo – dovrebbero essere 1.500. Davanti all'Isola di Pan, è rimasta solamente un'enorme distesa di sabbia. E come il Po anche il suo re è malato, bloccato a letto ormai da mesi, dopo essere precipitato da una passerella della sua nave, caduto nel vuoto e trovato a terra dolorante da un passante, dopo diverse ore. Il corpo sofferente di Alberto è l'immagine allo specchio di quanto sta succedendo al suo possente e nobile amico, da lui sempre amato, dai lui sempre abitato. 

Scriveva Rainer Maria Rilke nella prima Elegia duinese: "Certo è strano non abitare più la terra, non agire più gli usi da così poco appresi e alle rose, e alle altre cose piene di promesse non dare più senso di un umano futuro". Perché noi la nostra terra abbiamo smesso di abitarla, da una parte divorata dal consumismo di massa, con il dissennato utilizzo delle materie prime e il derivante inquinamento, dall'altra tramutata in una sterile meta turistica, uno scenario da fotografare tra l'ennesimo, infestante volo low-cost e una passeggiata tra le vie dello shopping, in mezzo a milioni di esotiche inutilità tutte prodotte dalle stesse fabbriche cinesi. Abitare deriva dal latino habitare, frequentativo di habere: avere una Terra e prendersene cura, avere una Terra e non farne grigia merce, da svendere e monetizzare come azioni di un titolo bancario; ma tutto questo l'abbiamo scordato o negato, accecati da un benessere fondato su un modello di sviluppo insostenibile, che – di fatto – ha già ipotecato il futuro dei bambini e dei ragazzi di oggi (saranno loro, incolpevoli, a pagare per noi, capro espiatorio senza redenzione).

"Ci sono persone che hanno soldi, macchine e ville costose, e nonostante tutto sono sempre tristi. Lo sai invece perché io, che non ho niente, sono così felice? Perché io ho il fiume Po". Così era solito ripetermi Alberto, seduto su un tronco nel suo vecchio costume blu, mentre contemplava scorrere quel fiume lento per lui così fraterno, oggi divenuto un deserto.
La secca del fiume Po, 15 giugno 2022-2
Boretto: la secca del fiume Po, 15 giugno 2022 - Foto Ansa

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