rotate-mobile
Mercoledì, 24 Aprile 2024
Coronavirus Montichiari

"Più energie su chi può farcela: è disumano, sembra di stare in una terra straniera"

Sara lavora all’ospedale di Montichiari e ci racconta la situazione drammatica che lei e i colleghi vivono ogni giorno, ormai da più di 3 settimane. Dispositivi di protezione che scarseggiano, paura del contagio, e pazienti che muoiono soli con indosso il camice dell'ospedale

La chiamata alla fine del turno. Per raccontare la fatica, non fisica ma emotiva, che lei, infermiera a Montichiari, sta vivendo come tutti i colleghi. La voce di Sara è provata dalle scene ’disumane’ che da ormai troppi giorni vede nell'ospedale dove lavora da anni. A lasciare il segno, più che i turni infiniti, è l’impossibilità di lavorare nelle condizioni ottimali e di fornire l’assistenza migliore alle tante persone che lottano contro il Coronavirus.

“Non posso assistere i pazienti come è giusto che sia. Facciamo le cose il più velocemente possibile e cerchiamo supporto negli stessi pazienti: a quelli che sono autonomi chiediamo per esempio di misurarsi da soli la febbre. In tempi normali un infermiere segue sei pazienti, ora ne dobbiamo seguire 24 in due. Cerchiamo di fare il possibile con gli strumenti a nostra disposizione, ma non facciamo tutto ciò che i libri di medicina impongono di fare in condizioni ottimali. Non abbandoniamo nessuno, ma siamo costretti a scegliere e a dirottare le energie su chi ha possibilità di ripresa. Tutto ciò è disumano. È come essere in una guerra, in una terra lontana, in un paese che non conosci, lontana da amici, parenti e figli."

Sara, come molti altri suoi colleghi, non vede le figlie (di 3 e 6 anni) da tantissimi giorni. Come ogni madre le vuole proteggere dal rischio di contagio e le ha affidate alla nonna: “ Il profumo della testa delle mie bambine mi manca quasi quanto ai miei pazienti manca l'ossigeno” ci racconta. Il rischio che corrono medici e infermieri è altissimo: “I dispositivi di protezione scarseggiano anche per noi. Abbiamo a disposizione una mascherina per ogni turno di 10 ore: se si strappano gli elastici dobbiamo mettere le graffette con la cucitrice, se si sporcano dobbiamo rincorrere la caposala per elemosinarne una nuova. I camici anti-contagio non sono personali: ce n’è uno appeso in ogni stanza e vengono usati a turno dal personale che deve entrare nella camera. Ogni volta che lo infilo prego che chi l’ha indossato prima di me se lo sia sfilato usando la corretta procedura e che non fosse infetto. Ci sono 5 mie colleghe che sono a casa, perché positive.”

Ma il numero potrebbe essere più alto: “Una collega ha chiamato stamattina per avvisare che aveva la febbre, le hanno detto di stare a casa: se lunedì avrà ancora la febbre forse le faranno il tampone. A noi vengono effettuati solo se manifestiamo i sintomi e i risultati non arrivano in 4 ore come per i degenti, aspettiamo anche giorni.”  

Una situazione drammatica e in continuo peggioramento: “I pazienti ricoverati sono sempre di più. Tanto che perfino la mensa è probabile che venga trasformata in un sala per i pazienti che arrivano dal Pronto Soccorso e devono esser tenuti in osservazione. Non sono solo anziani, pluripatologici, pazienti che comunque quest'anno sarebbero morti di influenza. Sono i nonni che fino a ieri si sono occupati dei nostri figli quando noi dovevamo andare al lavoro, sono le zie che ci hanno cresciuti come seconde mamme, sono genitori a cui mancava un mese alla pensione ed avevano mille progetti, sono i fratelli e le sorelle. Sono i colleghi con cui hai lavorato fino a ieri. Sono gli amici, sono i vicini di casa, sono i soliti che vedevi sempre in giro la mattina. Sono giovani, perché ci sono anche i giovani: oggi ho intubato una ragazza di 20 anni e sono bambini. Sono persone che non avrebbero mai pensato di ammalarsi e che la situazione fosse così grave. Credevano forse che non sarebbe successo nulla, che non sarebbe stato così drammatico. Pensavano di essersi tutelati abbastanza, ma sono state vittime di chi ha sottovalutato tutto. Sono persone a cui noi cerchiamo di trasmettere serenità attraverso lo sguardo: perché è tutto ciò che vedono di noi che li assistiamo, quando la visiera non si appanna perché sudiamo o perché ci viene da piangere”.

Molti non ce la fanno, entrano in ospedale soli e muoiono soli. Un carico di dolore e sofferenza enorme per chi li vede andarsene senza aver salutato la propria famiglia: “Molti muoiono con il camice dell'ospedale indosso, perché i parenti non fanno in tempo nemmeno a portare un pigiama, e in vestiti che avevano al momento del ricovero vengono tutti buttati, perché contaminati. Alcuni vengono sepolti così, perfino gli scialli di lana di molte nonnine dobbiamo gettare. Mi fa una tristezza infinita: è devastante."

Sara e le colleghe possono contare solo su loro stesse. L’unico conforto “È la pacca sulla spalla della tua collega, che vede quella lacrima che scende oltre la mascherina. È lei l’unica che può capire quello che stai provando.”

Anche noi possiamo aiutare Sara e le sue colleghe, ma c'è un solo modo: restare a casa. Niente corse, nemmeno passeggiate. Rinunce davvero minime e imparagonabili a quelle di centinaia di madri, e di padri, che non vedono da settimane i propri figli.

Si parla di

In Evidenza

Potrebbe interessarti

"Più energie su chi può farcela: è disumano, sembra di stare in una terra straniera"

BresciaToday è in caricamento