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Cronaca Gavardo / Località Busela

Amianto: un nuovo processo di smaltimento. Aspireco ci riprova?

Se ne discute a Mantova, mentre da Gavardo documenti e dati garantiscono l'efficacia di un impianto standard, targato Aspireco. "Se ci fossero ancora dubbi, siamo pronti a chiarirli, a braccia e a porte aperte"

Quando si parla di amianto pare lecita un po’ di preoccupazione: dal grande processo Eternit alle decine di migliaia di morti che ancora oggi si contano nel pianeta, fino a quegli astronauti improvvisati che con tubi e maschere rimuovono vecchie tettoie, caseggiati e coperture di garage. Allo stesso tempo però è anche naturale provvedere allo smaltimento di un materiale così pericoloso, e se l’Italia in questo sembra ancora indietro a ricordarcelo ci ha pensato pure l’Unione Europea, che più di una volta ha sollecitato interventi più mirati ed efficaci, sottolineando come il persistere di strutture in amianto non faccia proprio bene alla salute dei cittadini, visto che “1000 mq dello stesso rilasciano almeno 1kg di fibre all’anno”.

La questione amianto è tornata in auge anche di recente, a Mantova e dintorni, dove si discute dell’installazione di un impianto di smaltimento di ultima generazione a opera della ARME srl, società che rimanda all’ASPIRECO di Gavardo. “Aspireco ci riprova”, ha titolato qualche blog locale, mentre dalle parti nostre c’è qualcuno che lamenta l’eccessiva vicinanza della location mantovana rispetto a zone già “ampiamente degradate” come Montichiari e limitrofi. Abbiamo incontrato Carlo Frapporti, fondatore e CEO (per dirla all’americana) dell’Aspireco srl: “Siamo decisi a costruire – ci ha riferito – Restano solo da capire le intenzioni dell’amministrazione pubblica. L’amianto è un grosso problema, e la parte più critica rimane la prima fase, quella di rimozione. Dopodiché entriamo in scena noi, facciamo un lavoro specialistico che altri non fanno, e macchinari e impianti ce li costruiamo noi”.

Aspireco detiene infatti il primo brevetto (datato 1988) per il processo industriale di smaltimento di amianto. Ci sono voluti ben 12 anni per ottenere le necessarie autorizzazioni, per un’impiantistica “dalla qualifica completamente diversa rispetto al classico sistema di tombamento”. Ma come funziona l’impianto? “Il processo non è semplice, ma garantito. Da noi entra un rifiuto ed esce un prodotto che non lo è più. Un processo tecnologico diverso, una soluzione alternativa che non dà alcun problema: un impianto economicamente vantaggioso ma che allo stesso tempo rispetta tutti i criteri ambientali”. Un impianto standard occupa circa 7mila mq, coperto e suddiviso in quattro aree, quattro monoblocchi. La zona di scarico è chiusa e in depressione, dove il materiale viene controllato minuziosamente, pena il rigetto del bancale e sanzione a chi l’ha consegnato. Con tanto di metal detector e sensore di radioattività, raggi infrarossi “per il controllo di oli e acque” e un addetto alla sicurezza, “24 ore su 24 con cambio turno”.

In poco più di un minuto il materiale viene scaricato e spezzettato, pronto per essere bruciato. Ma, attenzione, non come un inceneritore, quasi come un forno che cuoce il pane. “Al termine della prima fase – continua Frapporti – che noi definiamo come controllo estremo della matrice in arrivo, l’amianto viene trasformato. L'Eternit, composto all'85-90% di cemento e al 10/15% di amianto, a quelle temperature 'concede' una riconversione dell'amianto stesso, con un ulteriore incremento di Silicio e Magnesio. Una trasformazione in forma amorfa e irreversibile, una reazione chimica che porta allo stato di filler. Un materiale innocuo e che può essere prontamente riutilizzato.. quasi meglio del cemento!”.

Le perplessità comunque ci sono, ma ci si può affidare ancora alla chimica. La tossicità dell’amianto, e dunque i suoi effetti cancerogeni, derivano dalla forma chimica dei cristalli che lo compongono, fibre acuminate ma che possono essere appunto chimicamente spuntate, arrotondate. Rimane però la questione delle emissioni, e su questo Aspireco vuole esser molto chiara. Varia documentazione, certificati statali e fotografie, oltre alle analisi dell’ARPA di Reggio Emilia, e del team del dottor Pecchini, che sull’impianto mobile di Arborea a Oristano (ora chiuso dopo un ciclo di 2mila tonnellate) attestano che “non sono state rilevate fibre in amianto sui campioni in uscita”.

Altri dati registrano la presenza di 0,5 fibre per litro negli impianti esterni, quando i limiti imposti sono di 20 ff/l per la trasformazione e di 100 ff/l per la coibentazione dei tetti, oltre alle emissioni del camino che risultano essere ben 100 volte in meno dei limiti regionali, e di scala decisamente inferiore anche per quello che riguarda diossine e policloruri. “Questo succede – aggiunge Frapporti – proprio per il tipo di processo utilizzato. E se ancora non bastasse, oltre ai filtri intermedi abbiamo inserito i filtri HEPA, filtri assoluti che vengono usati anche nelle sale operatorie”.

Il progetto d’impianto prevede anche una specie di sala didattica, un percorso che permette a chiunque ne abbia voglia di osservare passo dopo passo il processo di trasformazione. Oltre a “2 MW/h di energia prodotta con il calore di recupero, senza metano e senza petrolio, un’autonomia energetica superiore all’autosufficienza e che ci consente di produrre corrente extra”. L’ambizione dell’uomo passa anche per la discussione ambientale. Se il problema dell’amianto deve essere risolto, e su questo non ci sono obiezioni, bisogna trovare un’alternativa al tombamento, al nascondere tutto sotto il tappeto.

“Il nostro è un brevetto europeo, e vogliamo portarlo in tutto il mondo. Se ci fossero ancora dubbi siamo pronti a chiarirli, a porte e braccia aperte”.

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