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Coronavirus: "Strappato per tre volte alla morte”, la lunga battaglia di Cesare

Cesare Rossi, 73enne di Vestone, ha vinto la lunga lotta contro il Coronavirus. Giovedì 14 maggio è tornato a casa, dopo 67 giorni trascorsi tra l’ospedale di Gavardo e quello di Desenzano. Numerose le ‘ferite’ lasciate dal Covid-19

Ha visto la morte in faccia, per ben tre volte. Ma non si è mai arreso Cesare Rossi. E non l’hanno fatto nemmeno i dottori e gli infermieri del reparto di medicina interna dell'ospedale di Gavardo: per lui sono stati una vera e propria famiglia. Almeno durante i 67 lunghi giorni trascorsi a lottare contro il Coronavirus. 73 anni, e nessuna patologia pregressa, è stato uno dei primi contagiati dal Coronavirus a Vestone. Difficile per lui immaginare di vivere un’esperienza così devastante.

“Mi hanno strappato per tre volte alla morte”, esordisce Cesare che ripercorre il suo lungo calvario con una lucidità e un’ironia davvero invidiabile. La ‘ferite’ lasciate dal Covid - il diabete (causa cortisone) e parecchi problemi ai reni - non hanno scalfito la sua esuberanza e l’innata giovialità. La sua voce è carica di energia e di allegria, nonostante l’estenuante battaglia che ha combattuto negli ultimi due mesi.

Tutto è cominciato alla fine di febbraio, con una febbre alta e persistente: "Pensavo fossero i soliti malanni stagionali e sono andato dal medico, ma i farmaci tradizionali non funzionavano. Dopo una settimana che mia figlia chiamava di continuo il 112, finalmente sono venuti a prendermi a casa con l’ambulanza e mi hanno portato all’ospedale di Gavardo. Per prima mi ha visitato una dottoressa: subito mi ha detto che non c’era bisogno di fare le analisi, perché mi si leggeva in faccia che avevo il Coronavirus."

Una degenza lunghissima, la sua. Non è mai stato intubato, ma ha passato diverse settimane indossando il casco di ventilazione. Le sue condizioni sono precipitate per ben tre volte: “I medici mi hanno raccontato che ho sfiorato in tre occasioni la morte. La prima volta ero cosciente di quanto stava accadendo: sentivo che me ne stavo andando, che a breve avrebbe ceduto il cuore. Tant’è vero che ho detto addio a tutti e chiesto ai medici e agli infermieri che si stavano prodigando per me di darmi la morfina e di lasciarmi andare. Poi li ho pregati di non lasciarmi da solo”.

Momenti drammatici, che ora Cesare ricorda con la voce carica di una nuova energia. Quella di chi è sopravvissuto alla furia di un virus fino a pochi mesi fa sconosciuto: "Sono vivo solo grazie ai medici e agli infermieri che mi hanno trattato sempre con i guanti bianchi. Sono stati strepitosi e non solo dal punto di vista professionale.” Nel corso dell’intervista, Cesare ci chiede più volte di sottolineare il lavoro di chi lo ha salvato: “Per volontà del quasi defunto, elogiate la bravura e la carica di umanità dei dottori e di tutto lo staff dell’ospedale di Gavardo. Voglio ringraziarli tutti: da Silvia Polo, direttrice della medicina interna, ai dottori Emanuele Allemand e Lorenzo Moretti, alla caposala Daniela. Non mi hanno solo curato, salvandomi per ben tre volte, ma mi hanno accudito  cercando di non farmi accusare troppo la lontananza dalla mia famiglia. Sono delle persone splendide. Anche i gesti più piccoli, come una carezza e un complimento sono stati fondamentali: mi hanno aiutato ad andare avanti.” 

Un’esperienza terribile ormai alle spalle. Giovedì 14 maggio Cesare ha lasciato l’ospedale per tornare finalmente a casa: “La prima cosa che ho fatto quando sono uscito è stata guardarmi il panorama: mi è sembrato tutto più bello. A Vestone mi attendevano tutti i miei familiari: le mie due figlie, i miei 5 nipoti e mia moglie Neris che mi ha preparato un bel piatto di spaghetti con il sugo piccante. Erano mesi che sognavo di mangiarli: l’appetito non mi è mai passato, tanto che in ospedale mi facevo portare la carne in scatola e la divoravo di notte. Sono rimasto in piedi fino a mezzanotte: credo di non essere mai stato così psicologicamente carico.”

Ufficialmente è guarito dal Covid, ma la ripresa è ancora lunga. Diversi gli ‘strascichi’ lasciati dal virus: “I reni sono in panne e devo fare la dialisi, il diabete è impazzito. Per fare le scale che portano a casa mia ci metto molto tempo. Ho sempre l’ossigeno a portata di mano, ma sono fiducioso: questa condizione è solo temporanea, nel giro di un mese voglio riprendere le forze e tornare a guidare la macchina. Questo è il mio obiettivo e credo proprio che ce la farò.”

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